“Non ero solo stanca, ero persa”: Il coraggio di una madre contro il silenzio sulla depressione post partum
In questa testimonianza intensa e sincera, una giovane madre racconta il lato oscuro della maternità: il dolore invisibile della depressione post partum, l’incomprensione, la solitudine. E la forza di chiedere aiuto.
“Non ero solo stanca, ero persa”: Il coraggio di una madre contro il silenzio sulla depressione post partum
Oltre il mito della maternità felice
La maternità è spesso narrata come un momento magico, il culmine di un sogno atteso, l’inizio di una nuova vita non solo per il bambino, ma anche per la madre. Ma cosa accade quando questa narrazione si scontra con una realtà fatta di vuoto, silenzio, paura e solitudine?
In questa intervista, una madre condivide senza filtri la sua esperienza con la depressione post partum, attraversando gravidanze, un aborto, relazioni messe alla prova, giudizi insopportabili e un sistema sanitario spesso assente. Le sue parole sono un atto di coraggio e di verità. Un racconto che dà voce a chi, troppo spesso, resta inascoltata. Perché la fragilità non è debolezza, e parlare di dolore è già un primo passo verso la guarigione.
1) Quando hai cominciato a percepire che qualcosa non andava, dopo il parto? Cosa sentivi dentro di te in quei momenti?
Dopo il primo parto, mi sono sentita subito disorientata. Ricordo perfettamente il momento in cui ho preso in braccio mia figlia per la prima volta: ero cosciente di avere tra le mani una creatura viva, reale, mia… eppure mi sembrava tutto così surreale. Era come se il mio corpo sapesse cosa fare, ma la mia mente fosse rimasta indietro, confusa e in ritardo rispetto a ciò che stava accadendo. Non riuscivo ancora a comprendere la portata del cambiamento. Non era una bambola, era mia figlia. E questo pensiero mi sembrava quasi troppo grande per poterlo afferrare davvero.
Appena uscita dalla sala parto, camminavo come se nulla fosse successo. Mi ricordo che sono andata a cenare come se avessi semplicemente concluso una giornata intensa. Non piangevo, non sorridevo, non capivo. Era come se stessi osservando la mia vita da fuori. La bambina mi fu riportata solo alle sei del mattino successivo. In quelle ore, da sola, ho iniziato a sentire un vuoto silenzioso che non sapevo ancora chiamare con il suo nome. La depressione post partum, allora, era qualcosa che non riuscivo nemmeno a concepire. Pensavo fosse solo stanchezza, paura, inesperienza. Nessuno mi aveva mai detto che anche se hai un figlio sano e tutto va “bene”, puoi sentirti completamente persa dentro.
Con il secondo parto è stato diverso. Ci furono complicazioni, ma ero più preparata. Conoscevo già quel terreno sconosciuto. Ero più forte, più consapevole. Ero anche più stanca, certo, ma credevo davvero che la depressione non avrebbe potuto più toccarmi. La percepivo come qualcosa che apparteneva solo al passato, come un’ombra che avevo già lasciato dietro di me. E invece ho capito, col tempo, che la fragilità può tornare a bussare quando meno te lo aspetti — solo con volti diversi, sensazioni diverse.
2) Quali sono stati i segnali o i sintomi che ti hanno fatto pensare che non si trattasse solo di “stanchezza da neomamma”?
Con la mia prima figlia, i sintomi non li riconoscevo. Pensavo fosse tutto normale: la stanchezza, l’umore basso, il silenzio che si era impadronito di me. Ma dentro sentivo che qualcosa era cambiato in profondità. Io, che ero sempre stata una grande chiacchierona, piena di vita, avevo smesso di parlare. Non sorridevo quasi più. Vivevamo in piena pandemia, nel periodo più duro del Covid-19. Ero spesso sola, chiusa in casa, vedevo solo i miei suoceri, che fino a poco prima erano degli estranei. Credevo che fosse l’isolamento a spegnermi. In fondo, chi avrebbe sorriso in mezzo a quel vuoto?
Eppure qualcosa continuava a non tornarmi. Una sera, durante una semplice cena, mi si chiuse letteralmente la gola. Non riuscivo più a deglutire nemmeno l’acqua. Sentivo il petto oppresso, i pensieri confusi, come se la mia mente non riuscisse più a trovare un appiglio. Era come se il mio cervello si fosse scollegato dal mio corpo. In quel momento non capii che stavo vivendo un attacco di panico.
Poi ci fu quella battuta di mio suocero, fatta senza malizia, ma che per me fu devastante: mi disse, scherzando, che avrei dovuto mangiare di meno, altrimenti sarei ingrassata ancora di più con i chili della gravidanza. Per lui era una frase leggera, per me fu un colpo durissimo. Avevo già un rapporto fragile con il mio corpo, e sentirmi giudicata, in quel momento di vulnerabilità, mi fece crollare. Da lì iniziarono gli attacchi di panico frequenti, un’ansia continua, che mi divorava in silenzio. Non dormivo, non mangiavo, non riuscivo a respirare bene. Era come vivere dentro una bolla opaca, in cui tutto sembrava distorto.
Col secondo figlio fu diverso, ma non per questo più facile. Lì i sintomi si presentarono in modo più sottile, più ingannevole. Ero convinta di essere forte, preparata, in controllo. E invece stavo lentamente scivolando in uno stato di esaurimento mentale, ma questa volta non esplosivo, bensì logorante. Come se stessi macinando dentro di me qualcosa, giorno dopo giorno, senza accorgermi che mi stava consumando.
3) Hai avuto la possibilità di parlarne subito con qualcuno? Se sì, qual è stata la reazione delle persone attorno a te?
Durante il primo post parto, cercai in tutti i modi di farmi capire dal mio compagno — oggi mio marito. Provavo a spiegargli che c’era qualcosa che non andava in me, che avevo bisogno di essere ascoltata, vista, accolta. Ma lui, in quel momento, non c’era. Non riusciva a starmi vicino, e forse nemmeno a comprendermi. Col senno di poi credo che anche lui sia rimasto scioccato dalla paternità, da un cambiamento che ci ha travolti entrambi senza istruzioni. Erano notti intere senza chiudere occhio, giorni sempre uguali, sempre sveglia, sempre stanca.
Mia figlia aveva un sonno leggerissimo, dormiva pochissimo, e io non avevo tregua. Mi sentivo soffocare. E quando iniziarono gli attacchi di panico, i pensieri confusi, l’ansia costante, capii che non potevo più ignorare il mio stato. Dovevo agire. Prima per me stessa, e poi per lei. Stavo allattando al seno e a causa dello stress stavo cominciando a perdere il latte. Così decisi di rivolgermi a una psicoterapeuta. Con lei iniziai un percorso fatto di esercizi, dialogo, consapevolezza. Ma ci vollero anni — quattro, per la precisione — prima di ritrovare un po’ di equilibrio.
Poi arrivò un aborto. Fu devastante. Entrai in un’altra fase depressiva, diversa ma ugualmente dolorosa. Stavolta la mia reazione fu lavorare. Occuparmi, riempire le giornate, stancarmi fino a non avere più spazio mentale per pensare al dolore. E fu proprio durante quel periodo che arrivò, inaspettata, la terza gravidanza. Il mio bambino. Con lui fu diverso: questa volta riconobbi subito i segnali. Non mi illusi di poter gestire tutto da sola. Ne parlai immediatamente con mio marito e cominciai un nuovo percorso terapeutico, con un altro specialista. Avevo imparato ad ascoltarmi.
Ciò che mi ha profondamente segnata, in tutte e tre queste fasi, è stata la mancanza di empatia attorno a me. Nella prima fase, ricordo ancora le parole di mia cognata quando seppe della mia depressione post partum: mi disse, quasi infastidita, “Eh ma noi che ne potevamo sapere? Non era mica compito nostro capirti. Ognuno ha i suoi problemi e si arrangia con le proprie cose.” Dopo l’aborto, una volta terminato quel travaglio così diverso da tutti gli altri, mia suocera mi liquidò con un commento che mi fece male come uno schiaffo: “È solo un ciclo mancato.”
E infine, nella terza fase, ci fu un amico di famiglia che, riconoscendo la mia fragilità, tentò di approfittarsi di me, in un modo che nessun vero “amico” dovrebbe mai anche solo pensare. In ognuna di queste fasi, quello che mancava era comprensione autentica. Spesso si parla di depressione post partum come un momento di tristezza o crisi, ma pochi sanno quanto soli ci si possa sentire, quanto giudicati, quanto vulnerabili. Io oggi so quanto sia fondamentale parlarne, e soprattutto ascoltare, anche quando non si capisce tutto. Perché la cosa più pericolosa non è la depressione in sé… ma l’indifferenza intorno.
4) Quanto è stato difficile, come madre, accettare di stare male in un momento che socialmente viene descritto come “il più felice della vita”?
Per me è stato assurdo. Inconcepibile. Ho sempre avuto un fortissimo senso materno, sin da ragazza. I bambini mi hanno sempre fatto sentire a casa, completa. Stare con loro mi faceva stare bene, era quasi terapeutico. Avere dei figli miei era il sogno più grande, qualcosa che aspettavo da tutta la vita. Un’utopia, quasi. Eppure, quando è successo, non riuscivo ad essere felice. E questo mi distruggeva dentro. Continuavo a chiedermi: “Perché non provo quello che mi aspettavo?” Mi sentivo sbagliata. Difettosa. Come se qualcosa in me fosse rotto. Ogni azione che facevo sembrava non andare bene, e questa sensazione veniva amplificata dal giudizio costante.
All’inizio alcune donne della mia famiglia mi stavano molto addosso. Commentavano ogni cosa, mettevano bocca su tutto. Anche se con buone intenzioni, io mi sentivo schiacciata. Inadeguata. Invisibile come persona, visibile solo come madre. E questo peso l’ho sentito addosso come una montagna. La parte più difficile è stata accettare che il post parto non sarebbe stato come lo avevo immaginato. Io mi ero costruita un’immagine tenera e calorosa della maternità: momenti in famiglia, complicità con il mio compagno, profumo di casa e di futuro. Ma la realtà era fatta di notti insonni, un corpo stanco, richieste continue che non riuscivo a soddisfare, e un vuoto dentro che non capivo.
Vedevo tutte le altre madri — o almeno così mi sembrava — immerse in una felicità pura, e io invece mi sentivo come se stessi affogando. E la cosa peggiore era non poterne parlare apertamente, perché intorno a me il messaggio era chiaro: “Hai un bambino, l’hai cercato, devi solo essere felice e non lamentarti.” E invece no. Non lo ero. E solo quando ho trovato il coraggio di ammetterlo a me stessa, è iniziata la guarigione.
5) Hai trovato supporto nel sistema sanitario, nel tuo medico o in figure professionali? Cosa ti ha aiutato di più nel percorso di
guarigione?
Purtroppo, no. Non ho trovato il supporto che mi aspettavo, né tantomeno quello di cui avevo realmente bisogno. Il mio medico di base, che è anche madre, conosceva la mia situazione. Le avevo parlato con trasparenza del mio malessere, dei miei momenti di sconforto, della stanchezza e dei pensieri che mi tormentavano. Ma non ha mai realmente colto la profondità di quello che stavo vivendo. Mi propose delle gocce calmanti, ma mi mise davanti a una scelta assurda: “O allatti e stai male, o smetti di allattare e prendi le gocce.”
Quel compromesso mi sembrò inaccettabile. Così, di testa mia, decisi di rivolgermi a una psicoterapeuta privata. Un percorso che mi ha aiutato molto, ma che ho dovuto affrontare da sola, anche economicamente. Non ho ricevuto nessun sostegno dalle aziende sanitarie, nessun percorso agevolato, nessuna figura di riferimento. E poi c’è un altro punto che mi ha fatto molto male: il mio ex ginecologo. Le sue parole sono state per me un vero trauma. Ogni volta che uscivo da una visita con lui, piangevo per giorni. Mi umiliava, mi faceva sentire sbagliata, mi insultava apertamente. Fragile com’ero, assorbivo quelle parole come se fossero verità. Quelle frasi hanno contribuito ad alimentare la mia depressione, a minare ancora di più la mia autostima già in pezzi.
Ecco perché penso che tutte le donne nel post parto dovrebbero essere seguite, accompagnate, supportate, e non giudicate o lasciate sole. In Scozia, dove ho vissuto per metà della mia prima gravidanza, mi avevano parlato della figura della doula — una persona che, nel post parto, si prende cura della mamma, del neonato e persino della casa. Una figura dolce, concreta, presente. Quello che qui, purtroppo, manca completamente. E allora mi chiedo: possibile che nel momento più delicato della vita di una donna, la società e il sistema sanitario non abbiano ancora capito quanto sia fondamentale esserci davvero?
6) La tua esperienza con la depressione post-partum ha avuto un impatto sulla relazione con il tuo bambino o con il tuo partner?
Assolutamente sì. La depressione ha avuto un grande impatto, soprattutto nel primo post parto. Con la mia prima figlia è stato tutto molto difficile. Non riuscivo neanche a guardarla in viso mentre l’allattavo. Era come se dentro di me ci fosse una disconnessione: la tenevo sempre con me, la proteggevo con tutta me stessa, avevo una paura costante che qualcuno potesse farle del male, eppure… non riuscivo a gestirla. Non è stato un amore a prima vista. Eravamo due sconosciute che si guardavano da lontano, con rispetto, ma senza quella connessione che tutti si aspettano da una madre e una figlia.
Ancora oggi mi porto dietro il dispiacere di non aver vissuto con lei quel primo periodo come avrei voluto. Mi domando spesso se sarei potuta essere una madre migliore. Ma so che nonostante tutto, siamo sempre state accoccolate, nutrite d’amore, anche se a volte faticoso da dimostrare. E questo ci ha unite, per sempre. Con il mio secondo figlio è stato diverso. Avevo già fatto un percorso, conoscevo i segnali, e mi ero preparata. I consigli degli psicoterapeuti mi hanno aiutata tanto. Stavolta riuscivo a guardarlo negli occhi, e sembrerà banale, ma guardare in faccia tuo figlio mentre lo allatti cambia tutto. Crea un legame visivo, profondo, che è come un ponte tra due anime. Avevo paura di non riuscire a dargli abbastanza — amore, attenzioni, presenza — e invece è andata meglio di quanto immaginassi. Oggi è un mammone tenerissimo.
Con il mio partner, l’impatto della depressione è stato ancora più forte. Nei primi anni non avevamo un rapporto stabile. Ci sentivamo come due coinquilini che cercavano di crescere dei figli insieme, ma senza comunicare davvero. Mi sentivo trascurata, sola, come se stessi diventando invisibile. Cercavo la sua approvazione in ogni cosa, ma lui sembrava distante. Non voleva che uscissi perché non avevamo soldi, non voleva ospiti perché cercava pace. E io, per amor suo, mi annullavo. Giorno dopo giorno, perdevo pezzi di me stessa, come se stessi vivendo in un corpo che non mi apparteneva più.
A un certo punto ho pensato di lasciarlo, ci ho anche provato. Ma lui nemmeno se ne accorse. Credeva che scherzassi. È un uomo meraviglioso, che ha sempre lavorato duramente per non farci mancare nulla materialmente. Ma a me mancava altro: attenzione emotiva, contatto, riconoscimento. La fase più buia è arrivata quando un amico di famiglia — che lui considerava un fratello — ha iniziato ad avvicinarsi a me in un momento di profonda fragilità. Mi ha lavorata psicologicamente, lentamente, fino a quando ho ceduto. È nata una relazione extraconiugale. Lo sapevo che era sbagliato, ma nella mia mente sembrava un respiro, una fuga, una finestra aperta in una stanza soffocante.
Non ho retto molto. Ho detto la verità. E sì, ero pronta ad andarmene, se le cose fossero rimaste com’erano. Invece, da quel momento, è cambiato tutto. È stato uno shock per entrambi, ma anche una scossa che ha riallineato le nostre priorità. Da allora mi sento finalmente vista, riconosciuta, non solo come madre o moglie… ma come donna. Non dico tutto questo per giustificare il tradimento. Lo dico per far capire quanto la depressione post partum possa trasformare la mente in una centrifuga di emozioni incontrollabili. E quanto basta poco — uno sguardo, una frase, una gentilezza — per illudersi di aver trovato la felicità altrove. La verità, però, è che la vera felicità nasce dentro, quando ci si sente ascoltati, amati e accettati anche nei momenti più bui.
7) C’è stato un momento in cui ti sei sentita particolarmente sola o incompresa? Se sì, cosa avresti voluto che le persone capissero?
Ci sono stati tantissimi momenti in cui mi sono sentita sola e incompresa. A dire il vero, potrei farne un elenco lunghissimo. Ma alcuni episodi mi sono rimasti impressi come ferite che faticano a guarire. Uno dei momenti più dolorosi è stato dopo l’aborto. Ricordo perfettamente le parole che mi furono rivolte: “È stato solo un ciclo mancato.” Una frase apparentemente semplice, ma devastante. Come se il dolore, il sangue, il travaglio fisico ed emotivo che avevo appena vissuto… non esistessero.
Mi è stato anche detto — e questa è una delle cose più assurde che io abbia mai sentito — che forse avevo immaginato tutto. Che quella gravidanza non era reale. Che l’aborto era frutto della mia testa. Parole che non stanno né in cielo né in terra, ma che in quel momento fragile mi hanno colpita come coltelli. Quando sei in quello stato, ogni frase pesa il doppio. Ogni mancanza, ogni silenzio, ogni sguardo che non ti vede… diventa un macigno. In quegli anni ho sentito molte cose che mi hanno ferita, alcune delle quali hanno davvero aggravato la mia depressione. L’unica cosa che avrei voluto, davvero, era un po’ di comprensione, soprattutto da parte della mia famiglia, da chi mi stava intorno, da chi diceva di volermi bene.
Non avevo bisogno di grandi gesti, né di consigli. Solo di presenza, affetto, compagnia. Anche solo qualcuno che si sedesse accanto a me in silenzio, nei giorni in cui non avevo neanche la forza di parlare. Perché quando ti senti sola, il solo sapere che qualcuno c’è davvero, che resta, che non scappa, può fare la differenza tra il crollare e il resistere. Ecco cosa avrei voluto che le persone capissero: che non servono parole perfette. Serve solo esserci. Con il cuore.
8) Guardando indietro, c’è qualcosa che avresti voluto sapere o che ti sarebbe piaciuto ti dicessero prima del parto?
Sì. Guardando indietro, avrei voluto che qualcuno mi dicesse la verità. Anche cruda, anche difficile da ascoltare. Mi sarebbe servito sapere cosa succede davvero nel post parto: non solo a livello fisico, ma soprattutto mentale, emotivo, relazionale. In molte famiglie, purtroppo, certi discorsi sono ancora un tabù. Si parla del parto come del momento più bello della vita — e sì, lo è — ma nessuno ti dice che subito dopo può esserci un vuoto, un’ansia, una solitudine che non avevi messo in conto. Mi sarebbe bastato anche solo che una donna, una madre, mi avesse raccontato sinceramente come si era sentita lei, cosa aveva vissuto, senza paura di sembrare ingrata, debole o “sbagliata”.
Io sono una persona che ascolta molto, e parlo anche tanto. Quindi se solo ci fosse stato qualcuno disposto ad aprirsi, sono sicura che avrei affrontato le cose in modo diverso. Con la mia prima figlia ero giovanissima, avevo solo 21 anni. Desideravo tantissimo diventare madre, ma psicologicamente non ero pronta. E nessuno mi aveva davvero preparata a ciò che sarebbe potuto accadere dentro di me. Forse mi sarebbero stati utili dei corsi preparto, non lo so. Forse avrebbe fatto la differenza anche avere una rete di supporto più presente.
Nei primi sette mesi di gravidanza ero praticamente sempre sola. A letto, a stare male, mentre il mio compagno lavorava dalla mattina alla notte. Ero fragile, fisicamente ed emotivamente. Forse. È tutto ancora un grande forse. Ci sono risposte che probabilmente non avrò mai. Ma una cosa l’ho capita: il passato non si riscrive. Quello che possiamo fare è prenderne i pezzi, anche i più duri, e usarli per costruire un futuro migliore. Per noi. Per i nostri figli. E anche per le altre madri che, come me, un giorno avranno bisogno di sapere che non sono sole.
9) Quali sono oggi le tue emozioni nel ricordare quel periodo? E cosa diresti a una donna che ora sta vivendo ciò che tu hai passato?
Oggi sono ancora in un periodo delicato, sto vivendo il mio secondo post parto, quindi la sensibilità è molto viva dentro di me. Ma se penso al primo, lo vedo come un tempo buio, che mi ha lasciato un grande vuoto. Se dovessi rappresentarlo con un disegno, immagino una tela con uno sfondo scuro… e solo io e mia figlia, abbracciate, a portare colore. È stata una fase debilitante, faticosa, in cui i miei occhi erano sempre spenti, tristi, quasi come se implorassero aiuto. E mi sentivo inascoltata. Inadeguata. A volte mi chiedo come sarebbe stato se avessi avuto una macchina del tempo, se avessi potuto vivere quella maternità in modo diverso. Con più consapevolezza, con più leggerezza.
Oggi capisco che essere una buona madre non significa annullarsi per adempiere a ogni dovere. Non vuol dire caricare ogni cosa di peso e ansia per “fare bene”. È normale avere preoccupazioni, pensieri negativi, insicurezze. Ma non dobbiamo nutrirli. Dobbiamo imparare a riconoscerli e a prendercene cura, prima che prendano il sopravvento. Ora, dopo tutto questo vissuto, riesco a riconoscere una donna in difficoltà post parto anche solo dallo sguardo. Non ha nemmeno bisogno di parlare: negli occhi si legge tutto. E allora, a quelle donne che si sentono come mi sono sentita io — sole, o sole nonostante abbiano gente intorno — voglio dire una cosa chiara: Chiedete aiuto. Parlatene. Non abbiate vergogna. È un vostro diritto sentirvi stanche.
È un vostro diritto avere bisogni, desideri, momenti solo per voi. Prendetevi anche solo due ore al giorno, ma fatele vostre. Cercate uno psicoterapeuta che vi faccia sentire viste e accolte. Nutrite il vostro corpo con una buona alimentazione, bevete tanta acqua, iscrivetevi in palestra anche solo per camminare e respirare. Può sembrare banale, ma non lo è. Noi donne non siamo macchine programmabili. Siamo esseri umani pieni di emozioni, sensibilità e forza. E se impariamo a dare qualcosa a noi stesse per prime, possiamo dare al mondo una versione di noi più vera, più sana, più luminosa.
10) Pensi che oggi si parli abbastanza di depressione post-partum? Cosa servirebbe, secondo te, per abbattere lo stigma che ancora circonda questo tema?
No, oggi non se ne parla abbastanza. O meglio: se ne parla, ma ancora con troppa vergogna, troppo giudizio, troppa paura. La depressione post partum è vista come un’anomalia, un difetto, quasi un fallimento della maternità. E questo è il problema più grande. Una donna che soffre dopo il parto si sente spesso sbagliata, in colpa, giudicata. E allora cosa fa? Sta zitta. Finge. Sorride mentre dentro si sgretola. Si chiude in casa, si isola, e in molti casi… peggiora. Questo succede perché lo stigma è ancora vivo e silenzioso. Nessuno lo dice apertamente, ma aleggia. E finché una donna si sentirà dire frasi come “ma dai, hai un bambino, dovresti essere felice” oppure “è solo stanchezza, passerà”, lo stigma continuerà a fare danni.
Cosa serve, allora? Serve educazione emotiva, prima di tutto. Serve parlarne nelle scuole, nei corsi preparto, nei consultori, nei media. Serve che medici, ginecologi, ostetriche, psicologi siano formati davvero, e non solo tecnicamente. Serve che la maternità venga raccontata per com’è: bella, ma anche dura, piena di sfide e di trasformazioni profonde. E poi servono più spazi sicuri per le madri. Luoghi dove possano dire: “non sto bene”, senza essere giudicate, ma accolte.
Serve che ogni donna possa sentirsi legittimata ad avere momenti bui, senza paura di perdere il proprio ruolo, la propria identità o l’amore delle persone care. Lo stigma si abbatte con la verità. Con la voce di chi ci è passata. Con l’ascolto profondo, senza etichette. E se oggi sto facendo questa intervista, è proprio per questo: per mettere parole dove troppe volte c’è silenzio. Perché nessuna madre dovrebbe sentirsi sola mentre chiede aiuto.
Oltre il buio: la forza di chiedere aiuto
Questa testimonianza non è solo il racconto di una madre che ha attraversato il buio, ma un grido necessario contro il silenzio che ancora oggi circonda la depressione post partum. È il richiamo urgente a una società che troppo spesso celebra la maternità senza considerare le sue ombre, che giudica senza comprendere, che ascolta solo ciò che non disturba.
Da queste parole emerge un messaggio chiaro: chiedere aiuto non è un segno di debolezza, ma un atto di amore per sé stesse. Che questa voce possa raggiungere altre madri in difficoltà, e ricordare a tutte che non sono sole. Perché ogni donna merita di essere vista, ascoltata e accompagnata, anche – e soprattutto – nei momenti più fragili.
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