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Diritti umani nel tempo delle regressioni globali: un 10 dicembre carico di ombre e responsabilità.

Nel 77º anniversario della Dichiarazione universale, tra guerre, autoritarismi, crisi umanitarie e diritti sotto attacco, la Giornata mondiale richiama Stati e società civili a una nuova assunzione di responsabilità.

Diritti umani nel tempo delle regressioni globali: un 10 dicembre carico di ombre e responsabilità.

Ogni anno, il 10 dicembre, il mondo celebra la Giornata mondiale dei diritti umani, ricordando la proclamazione della Dichiarazione universale del 1948. È una ricorrenza nata per essere promessa e monito, ma che purtroppo, nel 77esimo anniversario, cade in un contesto drammatico: guerre, repressioni, restringimento degli spazi democratici, crisi umanitarie dimenticate e un sistema di protezione internazionale sempre più fragile. In questo scenario, le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e gli allarmi provenienti dalle Nazioni Unite e dalle organizzazioni per i diritti umani confermano che non si tratta di una semplice celebrazione simbolica, ma di un vero banco di prova per la coscienza collettiva.

Le origini della Dichiarazione universale: dal trauma della guerra alla promessa di dignità

La Dichiarazione universale dei diritti umani fu adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 a Parigi. Per la prima volta, la comunità internazionale sanciva in un documento comune i diritti fondamentali e inalienabili di ogni essere umano, a prescindere da razza, sesso, religione, lingua, origine sociale o opinioni politiche. Era la risposta diretta agli orrori della Seconda guerra mondiale: la Shoah, le città rase al suolo, le bombe atomiche, le deportazioni di massa e gli stermini di civili. L’idea era chiara e radicale: sostituire il “diritto del più forte” con il primato della dignità umana.

La Giornata mondiale dei diritti umani è stata istituita formalmente nel 1950, con la risoluzione 423(V) delle Nazioni Unite, che invitava Stati e organizzazioni a celebrarla in modo appropriato. Da allora, la Dichiarazione è stata tradotta in oltre 500 lingue ed è diventata il fondamento dei sistemi di protezione dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali in tutto il mondo. La distanza tra gli enunciati e la realtà odierna, però, appare sempre più ampia.

Mattarella: “ogni persona titolare di diritti inviolabili”

Nel suo messaggio per la Giornata mondiale, Sergio Mattarella ha richiamato le radici profonde di questa architettura internazionale. Ha ricordato come, settantasei anni fa, la Dichiarazione pose “al centro dell’ordinamento internazionale un principio semplice e rivoluzionario: ogni persona, in quanto tale, è titolare di diritti inviolabili”. Un messaggio concepito alla luce delle “macerie morali e materiali dei conflitti mondiali” e che, ha sottolineato, “continua a sollecitare la nostra coscienza collettiva”.

Il Presidente ha voluto legare questo impegno alla storia e alla Costituzione italiana, ricordando che il sostegno a un ordine internazionale basato sui diritti umani discende da valori scolpiti nella Carta: il ripudio della guerra, la promozione della giustizia, la solidarietà, l’uguaglianza e la libertà. Sono gli stessi valori che hanno ispirato il processo di integrazione europea, trasformando l’Unione in uno spazio di pace e diritti senza precedenti nella storia del continente.

Diritti sotto attacco: guerre, regressioni e disuguaglianze

Mattarella non nasconde la gravità della fase che stiamo vivendo. “I diritti umani subiscono molteplici attacchi”, ha affermato, evocando guerre vecchie e nuove che “tornano a proiettare la loro ombra sulle popolazioni civili”, con vittime inermi, sofferenza, distruzione. Le violenze contro donne e minori, le discriminazioni e l’erosione delle libertà democratiche vengono descritte come un arretramento della civiltà giuridica rispetto a traguardi che si pensavano consolidati.

Riappaiono razzismo, aggressioni, disuguaglianze: fenomeni che la storia aveva già indicato come errori da non ripetere e che invece tornano a emergere, spesso alimentati da retoriche nazionaliste e dalla demonizzazione del diverso. È lo scenario di una crisi che non è solo geopolitica, ma etica e culturale.

Il legame inscindibile tra diritti umani e pace

Uno dei nuclei centrali del messaggio del Capo dello Stato è il rapporto stretto tra diritti umani e pace. “Il rispetto dei primi è premessa essenziale della seconda”, ha ricordato, mentre l’assenza di pace “smorza la speranza di proteggere diritti e libertà”. La pace, dunque, non è un’astrazione né il risultato di un equilibrio di potenze, ma “il risultato di un impegno quotidiano e di una responsabilità condivisa” che ha il suo fondamento nella tutela della dignità di ogni persona e nel rifiuto della logica della sopraffazione.

Da qui l’enfasi sul ruolo del diritto internazionale e delle istituzioni multilaterali, considerate strumenti concreti di protezione tanto per gli Stati quanto per i singoli esseri umani. Indebolire questi pilastri significa esporre soprattutto i più vulnerabili al rischio di un mondo governato dalla prevaricazione e dall’abuso della forza, in cui le regole vengono sostituite dagli interessi dei più forti.

L’allarme dell’Alto Commissario Onu: diritti sottofinanziati, anti-diritti ben finanziati

In questa stessa giornata, l’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Volker Türk, ha lanciato un allarme esplicito: i diritti umani sono “sottofinanziati e sotto attacco”, mentre i movimenti che mirano a indebolirli sono sempre più organizzati e ben dotati di risorse. Türk ha sottolineato come politiche di diversità, equità e inclusione, pensate per correggere ingiustizie storiche e strutturali, vengano oggi spesso bollate come ingiuste o eccessive. Parallelamente, movimenti anti-diritti e anti-parità di genere agiscono in modo coordinato e transnazionale, potendo contare su finanziamenti enormi, stimati in quasi 1,2 miliardi di dollari mobilitati tra il 2019 e il 2023 da gruppi anti-diritti solo in Europa.

Paradossalmente, le risorse dell’Ufficio dell’Alto Commissario e di molte organizzazioni per i diritti umani vengono ridotte. Türk ha parlato apertamente di “modalità sopravvivenza”: circa 90 milioni di dollari in meno del necessario, 300 posti di lavoro persi, tagli a funzioni essenziali, proprio nel momento in cui la domanda di protezione cresce. Per fortuna, ha aggiunto, si registra anche una forte ondata di attivismo, soprattutto giovanile, che scende in piazza contro guerre, ingiustizie e inerzia climatica, chiedendo ai governi di ascoltare queste mobilitazioni invece di reprimerle.

Amnesty International: una mappa globale della regressione

Il Rapporto 2024-2025 di Amnesty International, pubblicato in Italia ad aprile 2025, offre una fotografia sistematica di questa regressione. Esaminando la situazione in 150 Stati, il documento evidenzia l’insinuarsi di pratiche autoritarie, l’inasprirsi della repressione del dissenso, l’uso sproporzionato della forza e l’erosione dello stato di diritto.

I numeri relativi alla libertà di espressione sono particolarmente allarmanti. In un solo anno, secondo il rapporto, 124 giornalisti e operatori dei media sono stati uccisi e 121 Stati hanno adottato o promosso leggi per restringere la libertà di parola. Una strategia che colpisce il cuore del controllo democratico: imbavagliare chi documenta, racconta e critica significa oscurare ciò che accade e lasciare che le violazioni si consumino lontano dallo sguardo pubblico.

Ucraina, Gaza, Sudan: conflitti che travolgono il sistema di protezione

La crisi del sistema internazionale di tutela dei diritti umani è particolarmente evidente nei teatri di guerra. L’invasione russa dell’Ucraina ha scatenato, dal 2022, una campagna di attacchi contro infrastrutture civili, lasciando milioni di persone al gelo e al buio, quando non direttamente sotto le bombe. Le accuse di crimini di guerra e di violazioni sistematiche del diritto umanitario si susseguono, mentre la comunità internazionale appare spesso incapace di imporre rispetto per le convenzioni sottoscritte.

Nella Striscia di Gaza, dopo i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità compiuti da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi contro la popolazione civile israeliana il 7 ottobre 2023, la risposta militare del governo di Tel Aviv è stata descritta da molti osservatori come un genocidio in corso. Nel mezzo, una catastrofe umanitaria tra le più gravi del pianeta, con infrastrutture distrutte, ospedali al collasso, intere comunità sfollate e una popolazione intrappolata in un assedio prolungato.

In Sudan, nel frattempo, si consuma la crisi umanitaria più grave oggi in corso: 12 milioni di persone sfollate con la forza, decine di migliaia di morti, torture, stupri, atrocità di massa. Eppure questa tragedia rimane in gran parte invisibile nei media internazionali, schiacciata da altre priorità geopolitiche. Tutti questi conflitti sono alimentati anche da vendite irresponsabili di armi, spesso in violazione di divieti e trattati, e da una concezione delle relazioni internazionali in cui il potere militare e politico prevale sulla tutela della dignità umana.

Il ruolo insostituibile delle società civili e delle “resistenze dimenticate”

Se il quadro istituzionale appare fragile, la speranza viene spesso dalle società civili. Non si può confidare nel “pentimento” spontaneo dei leader autoritari: la storia insegna che le svolte democratiche nascono più dalla pressione dal basso che dai ripensamenti dall’alto.

È nelle piazze, nei tribunali, nelle reti associative, nelle organizzazioni di base che si costruiscono le resistenze quotidiane all’autoritarismo. Il convegno “Diritti umani e civili: le resistenze dimenticate”, in programma oggi a Torino, va in questa direzione. Le testimonianze di Yoosef Lesani (Iran), Lorent Saleh (Venezuela), Zilan Diyar (Kurdistan) e Yulia Yukhno (Bielorussia) porteranno alla luce lotte che raramente trovano spazio nel dibattito pubblico occidentale, ma che rappresentano il cuore vivo della battaglia per i diritti.

Promosso dal Comitato regionale per i diritti umani e civili del Piemonte, il convegno mette al centro proprio queste realtà poco raccontate, ricordando che nel mondo sono attivi tra 56 e 59 conflitti, il numero più alto dalla Seconda guerra mondiale. La scelta di dedicare attenzione alle “resistenze dimenticate” è un invito a ampliare lo sguardo oltre le crisi mediaticamente più visibili.

Il Piemonte rappresenta, sotto questo punto di vista, un caso quasi unico nel panorama italiano: è l’unica regione ad aver istituito, con una legge del 2020, un Comitato regionale per i diritti umani e civili, organismo di consultazione e partecipazione che riunisce 27 componenti, tra cui attivisti e rappresentanti delle comunità in lotta.

Per il 2026, il Comitato ha indicato come tema guida “il dialogo come strumento fondamentale per costruire la pace nella giustizia e nella tutela dei diritti umani”. Una prospettiva che prova a tenere insieme dimensione locale e globale, consapevole che la promozione dei diritti comincia nei territori, nelle comunità, nelle istituzioni più prossime alle persone.

L’emergenza italiana: la “strage silenziosa” nelle carceri

La Giornata mondiale dei diritti umani è, dunque, l’occasione per guardare anche dentro i confini nazionali. In Italia, il sistema penitenziario vive una crisi strutturale che molti definiscono “umanitaria”. Sovraffollamento cronico con punte oltre il 135 per cento, carenze sanitarie gravi, personale insufficiente, condizioni di vita indegne: è in questo contesto che si consuma quella che viene chiamata “strage silenziosa” dei suicidi in carcere.

Nel 2024 e nel 2025 i numeri dei decessi hanno raggiunto livelli drammatici. Per far emergere questa realtà, il 10 dicembre 2025 alle 11.30, in Piazza Montecitorio, è stata allestita un’installazione simbolica: 72 sagome, una per ogni detenuto e detenuta che si è tolto la vita dall’inizio dell’anno.

Oltre il rito: trasformare la memoria in responsabilità

Rispettare i diritti umani è una chiamata alla responsabilità, rivolta a Stati, istituzioni sovranazionali, ma anche a ogni cittadino e cittadina. Impedire che la violenza prevalga sulle regole, affermare l’universalità dei principi che tutelano la dignità umana e contrastare le narrazioni che trasformano i diritti in privilegi per pochi sono i passaggi necessari perché la Dichiarazione del 1948 non rimanga un elenco di alti ideali, ma diventi davvero “un codice di condotta concreto”.

In un mondo attraversato da guerre, autoritarismi e disuguaglianze, il 10 dicembre non può essere solo una data sul calendario, né un rito vuoto. È il momento in cui misurare, con lucidità e coraggio, la distanza tra ciò che il mondo ha giurato nel 1948 e ciò che accade oggi.

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