Rimpatri accelerati e “return hub” nei Paesi terzi: la nuova stretta Ue sui migranti tra esigenze politiche e nodi irrisolti
L’Ue approva il nuovo regolamento sui rimpatri: procedure accelerate, Paesi terzi sicuri, return hub esternalizzati e un sistema di solidarietà ancora fragile. Una riforma guidata più dal clima politico che dai reali flussi migratori.
Rimpatri accelerati e “return hub” nei Paesi terzi: la nuova stretta Ue sui migranti tra esigenze politiche e nodi irrisolti
La riforma europea sui rimpatri segna una delle svolte più rilevanti degli ultimi anni nella gestione dei flussi migratori. Ma più che rispondere a un’emergenza reale, sembra riflettere il nuovo clima politico del continente: governi sotto pressione, opinioni pubbliche polarizzate, partiti conservatori e di estrema destra in crescita. Nel Consiglio Affari Interni, i ministri dell’Interno hanno dato il via libera a un accordo politico che introduce obblighi più rigidi per i migranti irregolari, procedure accelerate e la possibilità di creare centri di rimpatrio in Paesi terzi definiti “sicuri”. Una riforma ambiziosa, controversa e destinata ad aprire nuovi fronti di discussione.
Il cuore della riforma: obblighi più stringenti, procedure rapide, hub nei Paesi terzi
Il nuovo regolamento sui rimpatri introduce per la prima volta una serie di obblighi vincolanti per i cittadini extra-Ue in posizione irregolare. Chi non ha diritto a restare dovrà non solo lasciare il territorio dell’Unione, ma anche collaborare attivamente con le autorità, consegnare documenti, fornire dati biometrici, non opporre resistenza alle procedure. La mancata collaborazione comporterà conseguenze concrete: dalla revoca di benefici e permessi di lavoro fino a sanzioni penali che, secondo la linea del Consiglio, potranno includere anche la reclusione.
Parallelamente, gli Stati membri potranno creare “return hub” in Paesi terzi, strutture esternalizzate dedicate ai rimpatri e alla valutazione delle domande, purché situate in Paesi considerati sicuri e rispettosi delle norme internazionali in materia di diritti umani e non-respingimento. L’Italia, in questo contesto, candida già i centri in Albania come primo modello europeo.
È una spinta verso rapidità e uniformità delle procedure, obiettivi che da anni guidano il dibattito europeo, soprattutto sul fronte dei rimpatri, spesso troppo lenti e inefficaci.
Paesi sicuri: la prima lista comune Ue
Per accelerare le valutazioni delle richieste d’asilo, l’Ue ha approvato la prima lista comune dei Paesi di origine sicuri:
Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Kosovo, Marocco, Tunisia
oltre ai Paesi candidati all’ingresso nell’Unione, salvo eccezioni legate a conflitti o gravi violazioni dei diritti fondamentali.
La designazione di “Paese sicuro” permetterà di respingere più rapidamente le domande considerate manifestamente infondate, concentrando le risorse sui richiedenti realmente bisognosi di protezione.
Un cambio radicale sul concetto di Paese terzo sicuro
Il nuovo regolamento rivoluziona anche il concetto di Paese terzo sicuro, rendendo più ampio il margine per dichiarare inammissibile una domanda:
- Esistenza di un legame tra il richiedente e il Paese terzo (non più obbligatorio).
- Semplice transito nel Paese terzo prima di raggiungere l’Ue.
- Accordo formale tra l’Ue o uno Stato membro e il Paese terzo per esaminare lì le domande.
Per i minori non accompagnati, invece, l’accordo non può essere applicato.
Si tratta di una modifica che di fatto sposta parte significativa della procedura d’asilo fuori dall’Unione e che solleva dubbi giuridici, soprattutto alla luce delle sentenze della Corte di giustizia europea.
La Corte Ue frena: non basta dichiarare un Paese sicuro
Il caso Italia–Albania rappresenta il banco di prova più evidente. La Corte Ue ha stabilito che:
- non basta una dichiarazione politica o un decreto per definire “sicuro” un Paese terzo;
- occorre garantire controllo giurisdizionale pieno e individuale;
- la sicurezza deve essere valutata caso per caso;
- senza un regolamento europeo chiaro, non si possono trasferire migranti in modo automatico.
La decisione, con tempi che potrebbero arrivare a due anni, pesa sulla strategia italiana e su ogni tentativo di esternalizzare la procedura.
Il nodo della solidarietà: ricollocamenti o contributi economici
Resta irrisolta la questione della solidarietà. Il nuovo meccanismo prevede che ogni Stato membro possa:
- accogliere una quota di richiedenti asilo, oppure
- versare 20.000 euro per ogni persona non ricollocata.
Una soluzione che rischia di tradursi in una “solidarietà a pagamento”, poiché molti governi hanno già annunciato che preferiranno versare contributi piuttosto che accogliere richiedenti. Il principio di equa distribuzione rimane così fragile, con il peso che continua a cadere su Paesi di primo ingresso come Italia, Grecia e Spagna.
Intanto è stato approvato anche il “solidarity pool” per il 2026: 21.000 ricollocamenti o contributi equivalenti per 420 milioni di euro.
L’Italia rivendica un ruolo centrale
Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha definito la giornata “storica”, sottolineando tre risultati chiave per Roma:
- l’introduzione della lista europea dei Paesi sicuri;
- la riforma del concetto di Paese terzo sicuro;
- un sistema di rimpatri più rapido e centralizzato.
Per l’Italia, il modello albanese potrà operare da subito, anticipando alcune norme del Patto e fungendo da primo “return hub” europeo. La gestione resterà italiana, ma la normativa Ue lascia aperta la possibilità futura di esternalizzarla.
Non mancano tuttavia critiche: la Spagna ha espresso dubbi giuridici sugli hub nei Paesi terzi, “difficili da realizzare nella pratica”.
Un pacchetto costruito sulla percezione più che sull’efficacia
Il commissario europeo Magnus Brunner lo ha detto con insolita chiarezza: l’obiettivo è “dare ai cittadini la sensazione che la situazione sia sotto controllo”.
Un’affermazione che rivela la natura profondamente politica del pacchetto sui rimpatri.
Non c’è emergenza migratoria — gli arrivi sono in calo — ma c’è un’emergenza percepita che spinge governi e istituzioni ad adottare misure più dure, rispondendo alla crescita dei partiti conservatori e dell’estrema destra.
In questo contesto, la Danimarca — che presiede il Consiglio Ue — guida un approccio restrittivo diventato ormai mainstream.
Le criticità strutturali che restano sullo sfondo
Mentre la discussione ruota attorno a rimpatri, hub e Paesi sicuri, restano fuori dal dibattito i temi che potrebbero davvero rendere sostenibile la gestione dei flussi:
- canali legali d’ingresso;
- sistemi di accoglienza efficienti;
- cooperazione strutturata con i Paesi d’origine;
- politiche di integrazione e lavoro.
Il nuovo pacchetto può rendere più rapide alcune procedure ma non affronta le cause profonde delle migrazioni né rafforza la capacità dell’Ue di gestire in modo stabile e ordinato i flussi.
Il Parlamento europeo avrà l’ultima parola
Ora tocca al Parlamento europeo confermare o modificare l’accordo politico del Consiglio.
Un passaggio tutt’altro che scontato: l’equilibrio tra sicurezza, diritti fondamentali e responsabilità condivisa sarà al centro di una battaglia politica che riflette uno dei temi più divisivi dell’Europa contemporanea.
Il nuovo pacchetto rappresenta una svolta, ma anche un sintomo: l’Unione cerca di mostrare controllo in un mondo in cui il controllo totale non è possibile. E mentre cambia le regole, resta aperta la domanda più importante: quale modello di gestione migratoria vuole costruire l’Europa del futuro?
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