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Mosca detta le condizioni: “Donbass alla Russia, via le truppe ucraine”. Trump intensifica il pressing mentre i leader europei si riuniscono con l’inviato Witkoff a Berlino.

Mosca ribadisce che non ci sarà la tregua finché le forze ucraine resteranno nel Donbass, definito “territorio russo” da Putin. Il presidente americano Donald Trump intensifica il pressing su Kiev per accettare concessioni territoriali nel quadro del piano di pace negoziato con gli alleati europei.

Mosca detta le condizioni: “Donbass alla Russia, via le truppe ucraine”. Trump intensifica il pressing mentre i leader europei si riuniscono con l’inviato Witkoff a Berlino.

Mosca alza l’asticella delle condizioni per una tregua in Ucraina: nessun cessate il fuoco sarà possibile finché l’esercito di Kiev resterà nel Donbass. A scandire la linea è Yuri Ushakov, potente consigliere diplomatico di Vladimir Putin, che ribadisce come, per il Cremlino, la regione dell’est ucraino debba essere di fatto “sgomberata” dalle forze ucraine prima di qualsiasi accordo. Solo dopo un ritiro completo, spiega, si potrà discutere di una cessazione delle ostilità, con il territorio posto sotto pieno controllo russo e una presenza di forze di sicurezza di Mosca – polizia e Guardia nazionale – al posto delle truppe regolari.

“Tutto il Donbass è Russia”: la pretesa giuridica del Cremlino.

La posizione russa non è soltanto militare, ma anche – nella narrativa del Cremlino – costituzionale. Ushakov insiste sul fatto che “tutto il Donbass appartiene alla Federazione Russa secondo la costituzione russa”, richiamando i referendum farsa e le annessioni unilaterali del 2022–2023, mai riconosciuti dalla comunità internazionale. Su questa base, Mosca respinge in radice l’idea evocata da Volodymyr Zelensky di un referendum ucraino sul destino dei territori occupati: per il Cremlino non c’è nulla da sottoporre al voto dei cittadini ucraini, perché il Donbass, a suo dire, è già Russia a tutti gli effetti.

La “zona economica libera” e il Donbass demilitarizzato secondo Mosca.

Nelle ultime ore si è affacciata l’ipotesi, discussa tra Kiev, Washington e capitali europee, di trasformare parte del Donbass ancora controllata dall’Ucraina in una sorta di “zona economica libera” demilitarizzata. Zelensky ha confermato di essere sotto forte pressione statunitense per valutare un ritiro delle sue truppe da quell’area, in cambio di un nuovo assetto di sicurezza e di investimenti. Ushakov, però, chiarisce che, persino in uno scenario senza eserciti regolari, Mosca immagina comunque una presenza capillare sul posto delle proprie strutture di sicurezza incaricate di “mantenere l’ordine” e organizzare la vita civile. Un’idea che, agli occhi di Kiev, equivarrebbe a una legalizzazione dell’occupazione russa con un semplice cambio di uniforme.

Witkoff a Berlino, il pressing di Trump su Kiev e sugli alleati.

Per spingere verso un accordo entro la fine dell’anno, il presidente americano Donald Trump ha mandato il suo inviato speciale Steve Witkoff in Europa. Dopo una serie di incontri con Putin a Mosca e con i negoziatori ucraini negli Stati Uniti, Witkoff è atteso a Berlino per colloqui con Zelensky e i principali leader europei, tra cui quelli di Germania, Francia e Regno Unito. La Casa Bianca presenta la missione come un passaggio cruciale per superare le resistenze di Kiev alle concessioni territoriali e armonizzare la posizione degli alleati europei con quella di Washington. Trump ha lasciato intendere che la partecipazione statunitense ai prossimi incontri dipenderà dalla “concreta possibilità” di chiudere un’intesa, segnalando una crescente impazienza verso una guerra che dura ormai da quasi quattro anni.

Il cuore del contendere: territori in cambio di tregua.

La lentezza e la fragilità dei negoziati ruotano attorno al nodo delle concessioni territoriali. Secondo ricostruzioni di media statunitensi ed europei, la bozza di compromesso comprenderebbe il ritiro delle forze ucraine dalla porzione di regione di Donetsk ancora sotto il loro controllo, senza un parallelo ritiro strutturale delle forze russe dalle aree del Donbass già occupate. In cambio, Mosca valuterebbe un disimpegno limitato in alcune zone delle regioni di Sumy, Kharkiv e Dnipropetrovsk, mantenendo, però, un saliente territoriale significativo su Kherson e Zaporizhzhia, cruciale per il controllo del corridoio terrestre verso la Crimea. Per Kiev, che ha combattuto duramente per difendere ogni chilometro di territorio e ha pagato un prezzo umano altissimo, si tratterebbe di accettare una mutilazione territoriale sotto la minaccia di perdere il sostegno militare e finanziario americano.

L’ipotesi di referendum e il rischio di una pace impossibile da “vendere”.

Dentro l’Ucraina, Zelensky ha accennato alla possibilità di sottoporre a referendum eventuali cessioni territoriali, in particolare sul Donbass, ma la finestra politica per una consultazione del genere è strettissima. Sondaggi e analisi indipendenti indicano una larga maggioranza contraria a concedere formalmente porzioni di territorio a Mosca dopo anni di sacrifici e bombardamenti. La posizione di Ushakov, che dichiara “non negoziabile” lo status russo del Donbass e respinge l’idea stessa di un voto in Ucraina, rende ancora più difficile per Zelensky immaginare una via d’uscita che non sembri una capitolazione. Il presidente ucraino tenta di guadagnare tempo attraverso emendamenti al piano americano e chiedendo garanzie di sicurezza più robuste, ma si trova stretto tra la pressione degli alleati, le esigenze militari sul campo e un’opinione pubblica poco disposta a perdonare concessioni percepite come umilianti.

Garanzie di sicurezza “quasi NATO” e la carta dell’Unione Europea.

Per rendere digeribile questa prospettiva, Washington mette sul piatto garanzie di sicurezza che, secondo fonti statunitensi, sarebbero “simili all’articolo 5” della NATO, vale a dire un impegno vincolante alla difesa dell’Ucraina in caso di nuove aggressioni, previa approvazione del Congresso. Lo schema prevede un meccanismo di risposta automatica o semi-automatica in caso di attacchi russi, accompagnato da un massiccio pacchetto di assistenza militare e di addestramento a lungo termine. Sul fronte europeo, nei documenti di lavoro circola l’idea – ottimistica e al momento politicamente incerta – di un’accelerazione drastica del percorso di adesione dell’Ucraina all’UE, con l’orizzonte del 2027 come data simbolica per una piena integrazione. Una prospettiva che sconta tuttavia l’opposizione di alcuni Stati membri, come l’Ungheria, e i dubbi di governi che temono di importare nel cuore dell’Unione un conflitto congelato e un paese ancora instabile economicamente.

L’UE congela 210 miliardi, Roma frena sull’uso dei beni russi.

Bruxelles ha intanto compiuto un passo senza precedenti: il congelamento a tempo indeterminato di circa 210 miliardi di euro di attività russe custodite nell’Unione, in gran parte presso Euroclear. La misura mira a evitare che, ogni sei mesi, il rinnovo delle sanzioni venga messo in discussione da governi più vicini a Mosca, e apre la strada a un grande prestito all’Ucraina garantito dai profitti generati da questi asset. Venticinque Paesi hanno votato a favore; Ungheria e Slovacchia si sono opposte. Il Belgio, che teme di ritrovarsi esposto a cause miliardarie se la Russia dovesse riuscire a recuperare parte delle somme, e ora anche l’Italia – affiancata da Malta e Bulgaria – spingono, però, per un “Piano B”: ricorrere eventualmente al debito comune europeo.

Dall’altra parte, la Banca centrale russa ha annunciato di voler portare in tribunale il gruppo finanziario Euroclear, con sede in Belgio, in quanto sostiene che le azioni di Euroclear abbiano causato danni significativi e le abbiano impedito di amministrare i propri fondi e titoli. Nelle sue dichiarazioni, la banca centrale denuncia come “illegali e contrari al diritto internazionale” tutti i meccanismi di utilizzo diretto o indiretto dei beni della Banca di Russia, evocando la violazione del principio di immunità sovrana.

Odessa al buio: la guerra sul terreno non si ferma.

Mentre diplomatici e funzionari discutono di mappe e clausole, la guerra continua a colpire duramente i civili. Nella notte tra il 12 e il 13 dicembre, Odessa e altre regioni ucraine sono state bersaglio di pesanti raid aerei, con una combinazione di droni e missili diretti contro infrastrutture energetiche, portuali e industriali. In diverse zone della città e della regione si registrano blackout prolungati, danni a impianti elettrici e idrici, e incendi scoppiati in strutture civili e depositi.

La risposta ucraina: droni oltreconfine e colpi all’industria petrolifera russa.

Kiev, dal canto suo, continua a colpire in profondità il territorio russo con sciami di droni, spesso diretti contro raffinerie, depositi di carburante e infrastrutture energetiche che alimentano la macchina bellica del Cremlino. Nelle ultime ore un attacco di droni nella regione di Saratov ha causato la morte di civili, mentre le autorità russe hanno rivendicato l’abbattimento di decine di velivoli senza pilota in diverse aree, dalla Crimea alle regioni di Rostov, Voronezh e Belgorod.

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