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Maria Corina Machado riappare a Oslo: la Nobel per la Pace sfida Maduro e promette il ritorno in Venezuela.

Dopo undici mesi di clandestinità, la leader dell’opposizione venezuelana arriva in Norvegia tra cori di “libertà”. Racconta la fuga dal Paese, denuncia il “terrorismo di Stato” e annuncia che tornerà per “porre fine alla tirannia”.

Maria Corina Machado riappare a Oslo: la Nobel per la Pace sfida Maduro e promette il ritorno in Venezuela.

Maria Corina Machado, leader dell’opposizione venezuelana e premio Nobel per la Pace, è riemersa dall’oscurità della clandestinità a Oslo, dove è arrivata dopo un viaggio complesso e pericoloso iniziato in Venezuela. La sua presenza nella capitale norvegese segna il primo ritorno in pubblico dopo undici mesi trascorsi nascosta, braccata da un regime che la considera una minaccia esistenziale. Il suo arrivo, nella notte, ha trasformato il centro di Oslo in un punto di incontro della diaspora venezuelana, tra cori, bandiere e richieste di libertà.

Un premio ritirato in assenza, ma un’assenza carica di significato

Machado non ha potuto partecipare alla cerimonia del Nobel per la Pace del 10 dicembre, nella quale il riconoscimento è stato ritirato dalla figlia, Ana Corina Sosa Machado. L’assenza non è stata solo logistica, ma il simbolo concreto del prezzo della dissidenza in Venezuela: l’impossibilità di muoversi liberamente, la necessità di proteggere sé stessa e chi l’ha aiutata a lasciare il Paese. Nel discorso letto dalla figlia, Machado ha definito il premio un riconoscimento “alla lotta del popolo venezuelano per la democrazia e la libertà” e ha descritto il governo di Nicolás Maduro come un “terrorismo di Stato” responsabile di rapimenti, torture e sparizioni, crimini documentati anche dalle Nazioni Unite.

La fuga in condizioni estreme

La partenza di Machado dal Venezuela è avvenuta in quello che lei stessa ha definito un contesto “molto, molto pericoloso”. Secondo ricostruzioni di stampa, avrebbe lasciato il Paese a bordo di una barca diretta a Curaçao, nel mar dei Caraibi, prima di proseguire il viaggio verso gli Stati Uniti e poi per la Norvegia. In un audio diffuso dal Nobel Institute, Machado ha raccontato che molte persone hanno “rischiato la vita” per permetterle di arrivare a Oslo, senza tuttavia rivelare nè dettagli nè tempi del suo eventuale rientro. La riservatezza non è solo prudenza politica, ma una misura di sicurezza in un contesto in cui la repressione colpisce non solo i leader dell’opposizione, ma anche chi li sostiene logisticamente.

L’arrivo nella notte e la folla sotto il Grand Hotel

Nel cuore della notte, la capitale norvegese ha assistito a una scena insolita: una folla di venezuelani e sostenitori accalcata sotto il Grand Hotel di Oslo, luogo simbolico dei Nobel, ad attendere la leader dell’opposizione. Machado, 58 anni, si è affacciata al balcone della storica suite Nobel poco prima delle 2.30 del mattino, salutando i presenti che rispondevano con cori di “Libertad!” e “Coraggiosa!”. L’inno nazionale venezuelano è risuonato davanti alla facciata illuminata dell’edificio, con il verso “Gloria alla nazione coraggiosa, che si è scrollata di dosso il giogo!” ripetuto come una dichiarazione di intenti. Pochi minuti dopo, la Nobel è scesa in strada, ha scavalcato le transenne e ha abbracciato una ad una le persone che erano accorse per vederla.

Undici mesi di invisibilità politica

L’ultima apparizione pubblica di Machado risaliva al 9 gennaio, a Caracas, durante una manifestazione di protesta contro l’insediamento di Maduro al suo terzo mandato presidenziale, dopo le elezioni del luglio 2024 segnate, secondo l’opposizione e parte della comunità internazionale, da gravi irregolarità. Pochi giorni dopo, l’ex deputata è stata costretta alla clandestinità, mentre venivano documentati arresti, persecuzioni giudiziarie e violazioni dei diritti umani ai danni di oppositori e attivisti. Il suo silenzio pubblico, durato quasi un anno, ha alimentato interrogativi e timori sulla sua sorte, trasformando la riapparizione di Oslo in un evento politico che va oltre i confini norvegesi.

La sfida politica a Maduro: dalle urne negate al Nobel

Machado è diventata il volto più noto dell’opposizione venezuelana dopo aver vinto le primarie del fronte anti-Maduro in vista delle presidenziali del 2024. La sua candidatura, però, è stata bloccata dal governo, che le ha impedito di correre, aprendo la strada alla figura di Edmundo González Urrutia, diplomatico in pensione dietro la cui candidatura si è stretta l’opposizione. Nonostante le forti contestazioni sull’esito del voto, il Consiglio elettorale nazionale, controllato da fedelissimi del presidente, ha proclamato la vittoria di Maduro. González, costretto all’esilio in Spagna dopo un mandato d’arresto nei suoi confronti, era presente alla cerimonia del Nobel.

“Chi dice la verità in Venezuela rischia la vita”

Nel corso della sua visita al Parlamento norvegese, dove è stata accolta dal presidente della Camera Masud Gharahkhani e ha firmato il libro degli ospiti, Machado ha sintetizzato la condizione del dissenso nel suo Paese con una frase netta: “chiunque dica la verità in Venezuela rischia la vita”. Secondo la leader dell’opposizione, manifestare contro il potere di Maduro significa esporsi a un sistema in cui la persecuzione è strutturale, non episodica. A suo dire, migliaia di persone sarebbero state “rapite, fatte sparire e torturate”, in quella che definisce una strategia di “terrorismo di Stato” volta a soffocare e intimidire qualsiasi forma di resistenza organizzata.

La reazione del regime: delegittimare il Nobel.

La decisione del Comitato norvegese di assegnare il Nobel a Machado è stata duramente criticata dal governo di Caracas. La vicepresidente Delcy Rodríguez ha parlato di “fallimento totale” della cerimonia, ricordando che la diretta interessata non era presente, e ha definito il premio “macchiato di sangue”. Maduro, da un palco a Caracas, ha accusato l’amministrazione statunitense di “interventismo illegale e brutale”, invitando i cittadini a prepararsi a “fracassare i denti dell’impero nordamericano, se necessario”. È la prosecuzione di una narrativa ormai consolidata, in cui ogni pressione esterna viene presentata come complotto imperialista e ogni forma di opposizione interna come strumento degli interessi stranieri.

Il fronte internazionale che si stringe intorno a Machado

Alla cerimonia di consegna del Nobel erano presenti diversi capi di Stato latinoamericani, tra cui il presidente argentino Javier Milei, quello dell’Ecuador Daniel Noboa, il panamense José Raúl Mulino e il paraguayano Santiago Peña. La loro presenza ha dato un segnale politico chiaro: per una parte dell’America Latina, la causa democratica venezuelana non è solo un dossier di politica estera, ma un banco di prova della credibilità delle istituzioni regionali. Nel suo intervento, il presidente del Comitato per il Nobel, Jørgen Watne Frydnes, ha esortato Maduro a riconoscere l’esito delle elezioni e a dimettersi, definendo Machado un esempio di “lotta per una transizione pacifica e giusta dalla dittatura alla democrazia”.

Un premio che diventa strumento di pressione politica

Il Nobel a Machado va oltre il riconoscimento individuale: nelle parole della stessa leader, è un premio “per tutti i venezuelani” che hanno continuato a mobilitarsi nonostante la repressione. Il testo del discorso di accettazione, letto dalla figlia, non è solo un atto di gratitudine, ma un atto d’accusa verso il regime. Allo stesso tempo, il premio viene criticato da chi contesta la vicinanza politica di Machado a Donald Trump e a settori conservatori statunitensi, interpretandolo come una scelta fortemente schierata sul piano geopolitico.

“Sono venuta a ricevere il premio a nome del mio popolo”

Machado ha insistito più volte sul carattere collettivo del Nobel. Davanti al Parlamento norvegese e ai giornalisti ha ricordato di essere arrivata in Norvegia per ricevere il premio “a nome del popolo venezuelano” e ha promesso che lo riporterà nel suo Paese “al momento opportuno”, il suo obiettivo, infatti, è “porre fine alla tirannia il più presto possibile” e “instaurare la democrazia”.

Il non dire “quando o come” non è evasività, ma una misura di autodifesa in un contesto in cui ogni spostamento può diventare occasione di arresto o rappresaglia. Al tempo stesso è un modo per tenere aperta una finestra di possibilità: quella di un ritorno che non sia solo personale, ma politico, inserito in una più ampia transizione.

Un paese sospeso tra paura e speranza

Le parole di Machado, la sua fuga rischiosa, il sostegno internazionale e la rabbia del regime restituiscono l’immagine di un Venezuela in sospeso: tra un presente segnato da repressione, ingerenze e crisi economico-sociale, e una prospettiva di cambiamento che passa per la tenuta di un’opposizione duramente colpita, ma non annientata. “Chi vive in Venezuela e vuole dire la verità è in pericolo”, ha ripetuto, ma questo non ha fermato né lei né i suoi sostenitori. Il Nobel per la Pace, in questo quadro, non è un punto d’arrivo, ma un’arma simbolica in più in una battaglia politica e civile che si annuncia ancora lunga.

Il passaggio dalla clandestinità al palco internazionale di Oslo segna un salto anche sul piano narrativo: per mesi, Machado è stata una presenza quasi fantasma nella politica venezuelana, evocata più che vista, mentre circolavano solo voci sulla sua sicurezza. Ora è tornata a raccontare “di persona” – come ha promesso nel suo messaggio audio – ciò che lei e molti altri hanno dovuto affrontare per continuare a opporsi al regime.

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