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Il G20 approda in Africa: Johannesburg al centro dello scontro geopolitico e delle sfide su sviluppo e sostenibilità.

Per la prima volta il G20 approda nel continente africano: tra assenze eccellenti, tensioni geopolitiche e grandi sfide globali, Johannesburg diventa il centro di un nuovo dialogo tra Nord e Sud del mondo.

Il G20 approda in Africa: Johannesburg al centro dello scontro geopolitico e delle sfide su sviluppo e sostenibilità.

Il 22 e 23 novembre 2025 Johannesburg, cuore pulsante dell’economia sudafricana, ospita un vertice destinato a entrare nella storia: per la prima volta il G20 si riunisce sul continente africano. Un appuntamento che va ben oltre il valore simbolico e che arriva in un passaggio delicatissimo per l’economia mondiale, per gli equilibri geopolitici e per la lotta alle disuguaglianze.

Il Sudafrica ha scelto, infatti, un motto molto chiaro: “Solidarietà, Uguaglianza, Sostenibilità”. Significa mettere sul tavolo, davanti alle grandi potenze, temi che per il continente africano non sono solo teoria, ma vita quotidiana: la povertà, il debito, i cambiamenti climatici, le disuguaglianze sociali, la transizione energetica e digitale rischiano di lasciare indietro intere regioni del pianeta.

Un G20 in un mondo fragile

Il contesto in cui si riunisce questo G20 è tutt’altro che sereno. L’economia globale rallenta, l’inflazione rimane alta, le tensioni geopolitiche sono alle stelle – basti pensare alla guerra in Ucraina – e la crisi climatica rende sempre più frequenti gli eventi estremi e i disastri naturali. A questo si aggiungono disuguaglianze crescenti, tanto tra Paesi quanto all’interno delle singole società.

Dentro questo scenario, ospitare il G20 in Africa assume un significato preciso: riconoscere che non si può parlare di futuro del pianeta senza dare voce a chi, fino a ieri, veniva soprattutto raccontato come “area problematica” e non come partner politico a pieno titolo. Anche per questo l’Unione Africana è entrata stabilmente nel formato del G20, affiancando l’Unione europea.

Chi c’è, chi manca e perché conta

Attorno al tavolo di Johannesburg ci saranno i rappresentanti dei Paesi che, messi insieme, generano circa l’80% del PIL mondiale e ospitano il 60% della popolazione del pianeta. Il gruppo di solito è composto dalle grandi potenze occidentali ai giganti asiatici (Cina, India, Giappone), passando per Russia, Brasile, Sudafrica e altri attori chiave come Turchia, Arabia Saudita, Indonesia, Messico, Corea del Sud e Australia.

A far discutere quest’anno, però, sono gli assenti di questa edizione. Per la prima volta dalla nascita del G20, i leader di Stati Uniti, Cina e Russia non partecipano contemporaneamente.

Negli Stati Uniti, Donald Trump ha deciso non solo di non presentarsi, ma di non inviare alcun rappresentante. Ha definito “una vergogna assoluta” il fatto che il summit si tenga in Sudafrica, accusando il Paese di persecuzioni nei confronti dei bianchi afrikaner, “uccisi, massacrati e privati illegalmente delle loro terre e fattorie”, secondo la sua narrazione.

Dalla Russia, Vladimir Putin non esce: su di lui pende il mandato di arresto della Corte penale internazionale per la guerra in Ucraina, e il Sudafrica – essendo membro della CPI – teoricamente dovrebbe arrestarlo se mettesse piede sul suo territorio. Mosca sarà rappresentata dal consigliere economico Maxim Oreshkin.

La Cina, infine, manda a Johannesburg non il presidente Xi Jinping, ma il premier Li Qiang, come spesso accade quando Pechino vuole mantenere un profilo un po’ più defilato senza, però, disertare del tutto il tavolo.

L’agenda sudafricana: solidarietà, uguaglianza, sostenibilità

Nonostante le assenze, il Sudafrica ha costruito un’agenda ambiziosa. Le discussioni sono organizzate in tre grandi sessioni, che sono anche una sorta di manifesto politico: “crescita economica inclusiva e sostenibile che non lasci indietro nessuno”, “un mondo resiliente – il contributo del G20” e “un futuro equo e giusto per tutti”.

Dietro queste formule ci sono alcuni temi molto concreti. Prima di tutto, il nodo del debito globale, in particolare quello dei paesi africani, che spesso si ritrovano imprigionati in una spirale di interessi e condizioni che impediscono investimenti seri in sanità, istruzione e infrastrutture.

Poi la finanza per lo sviluppo, cioè tutti quegli strumenti – dal ruolo delle banche multilaterali alle riforme del Fondo Monetario e della Banca Mondiale – pensati per mobilitare risorse su larga scala.

 Altri temi sono i sistemi alimentari, la sicurezza alimentare e il problema della fame, tutt’altro che risolto; c’è la questione del lavoro dignitoso in un’economia in costante evoluzione; il cambiamento climatico e c’è anche la grande nuova frontiera dell’intelligenza artificiale, che promette rivoluzioni, ma porta con sé il rischio di nuove disuguaglianze.

Il Sudafrica, nella persona del presidente Cyril Ramaphosa, ha già dichiarato che intende mettere lo sviluppo dell’Africa in cima all’agenda del summit.  Non stupisce: secondo la Banca Mondiale, il Sudafrica è uno dei paesi più diseguali al mondo, e questo tema è un nervo scoperto tanto interno quanto globale.

L’Unione europea: sviluppo sostenibile e multilaterale

In questo quadro, l’Unione europea arriva a Johannesburg con una posizione relativamente compatta. A rappresentarla ci sono il presidente del Consiglio europeo António Costa e la presidente della Commissione Ursula von der Leyen.

Per Bruxelles, lo sviluppo sostenibile non è solo una parola alla moda: è una delle priorità strategiche, e da anni l’UE rivendica il proprio ruolo di leader nel finanziamento dei programmi globali per lo sviluppo.

Sul fronte commerciale, l’UE ricorda di essere il principale partner commerciale di 66 paesi, che rappresentano oltre metà del PIL mondiale. Non si limita, poi, solo a difendere il libero scambio, ma insiste su un modello di commercio aperto, basato su regole, che includa anche standard ambientali e sociali. In altre parole, Bruxelles cerca di usare il proprio peso economico per orientare la globalizzazione verso forme più sostenibili.

L’Italia e il Piano Mattei: l’Africa al centro

La presenza italiana a Johannesburg è molto attiva. La premier Giorgia Meloni parteciperà a tutte le sessioni di lavoro e porta con sé due grandi “bandiere”: la presidenza italiana del G7 e il Piano Mattei per l’Africa.

Il Piano Mattei viene presentato come una sorta di nuovo patto tra Europa e Africa, fondato non solo su aiuti, ma su investimenti, infrastrutture, energia, formazione e sviluppo condiviso. Al G20, Meloni intende ribadire soprattutto due aspetti: la conversione del debito africano in investimenti, che prevede che i paesi creditori rinuncino a parte del credito in cambio di progetti di sviluppo concreti nei Paesi debitori e la volontà di far arrivare già a inizio anno i primi progetti concreti, dato che i negoziati bilaterali con i paesi interessati sono già partiti.

Accanto al tema del debito, c’è quello della sicurezza alimentare. Meloni insiste sul legame tra fame, instabilità e conflitti: dove mancano cibo e prospettive, aumentano le migrazioni forzate, le tensioni interne e l’attrazione per attori armati o illegali.

Sul piano della governance globale, l’Italia sostiene la necessità di riformare il Consiglio di Sicurezza dell’ONU per renderlo più rappresentativo, ma si oppone all’idea di creare nuovi seggi permanenti: preferirebbe seggi temporanei a rotazione, distribuiti per aree geografiche, per evitare nuove cristallizzazioni di potere.

Infine, due ambiti chiave: intelligenza artificiale e minerali critici. Meloni ribadirà che l’IA deve svilupparsi entro principi etici chiari e “con l’uomo al centro”, evitando di trasformarsi in uno strumento che amplifica le disuguaglianze. Sui minerali critici, l’attenzione va alle catene di approvvigionamento, che dovrebbero essere sicure, ma anche più equilibrate, così da non riprodurre meccanismi di sfruttamento nei paesi produttori.

Johannesburg blindata: proteste, esercito e vetrine

Un vertice del genere, in un paese segnato da forti tensioni sociali, non poteva che avere un enorme apparato di sicurezza. Il governo sudafricano ha schierato 3.500 agenti di polizia in più, messo l’esercito in stato d’allerta e organizzato una vera e propria parata di preparazione, con elicotteri, unità cinofile e motociclisti, tutto sotto il coordinamento del Natjoints, la struttura che mette insieme polizia, militari e servizi segreti per gli eventi più delicati.

Il G20 porta con sé, infatti, anche la protesta. Sono previsti cortei e manifestazioni di gruppi anticapitalistiattivisti per il clima; movimenti per i diritti delle donne; gruppi anti-migranti e organizzazioni che contestano le politiche di azione positiva a favore della popolazione nera.

L’organizzazione Women for Change ha lanciato un duro messaggio: propone uno sciopero nazionale per denunciare l’altissimo tasso di femminicidi in Sudafrica, ricordando che, finché il Paese “continuerà a seppellire una donna ogni 2,5 ore”, parlare di progresso al G20 rischia di sembrare ipocrita.

Intanto, Johannesburg ha avviato una grande “operazione cosmetica”: pulizia straordinaria, riparazioni lampo e interventi in quartieri simbolici come Soweto, dove lo stesso Ramaphosa si è mostrato in tuta da lavoro.

Molti cittadini, però, restano scettici: temono che il G20 sia soprattutto una vetrina internazionale, mentre i problemi strutturali – dai blackout all’acqua, dalle buche alle disuguaglianze – rimangono irrisolti nel quotidiano.

Un banco di prova per l’Africa e per il mondo

In definitiva, il G20 di Johannesburg è molto più di un grande evento diplomatico. È un test per l’Africa, che vuole smettere di essere solo destinataria di aiuti e diventare protagonista di proposte; per l’Europa e l’Italia, che cercano di costruire un nuovo tipo di rapporto con il continente e in generale per il sistema multilaterale, che deve dimostrare di saper ancora tenere insieme interessi divergenti in un quadro minimo di regole condivise.

Se da questo vertice usciranno impegni concreti su debito, sviluppo sostenibile, sicurezza alimentare, transizione energetica, lotta alle disuguaglianze e regolazione dell’intelligenza artificiale, Johannesburg potrà essere ricordata come l’inizio di una nuova fase.

Se invece prevarranno i veti incrociati, le assenze e le diffidenze, resterà l’immagine di un mondo che si guarda, si misura, si critica, ma fatica a costruire soluzioni comuni – proprio mentre il tempo, sul fronte climatico e sociale, scorre sempre più veloce.

Intanto, già si guarda al prossimo appuntamento: il vertice di Miami del dicembre 2026, che sarà ospitato dagli Stati Uniti sotto la stessa amministrazione che oggi diserta Johannesburg. Un paradosso solo apparente, che racconta bene la fase fluida e contraddittoria che stiamo vivendo.

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